Piemonte. Una definizione fotografica - Prefazione
Jean-Luc Monterosso

Piemonte. Una definizione fotografica - Andare
Gian Luca Favetto

Piemonte. Una definizione fotografica - Altrove da oggi
Giorgia Fiorio



Piemonte. Una definizione fotografica - Prefazione

Jean-Luc Monterosso
Direttore Maison Européenne de la Photographie, Parigi


Nelle sue immagini Giorgia Fiorio riesce a cogliere la Fatica stessa degli uomini del Piemonte: il sudare della fronte, le vene che si gonfiano, i muscoli che si tendono. La giovane fotografa di origine torinese dirige lo sguardo sulla danza operosa dei lavoratori in attività. Gli spazzacamini, inghiottiti dai muri di mattoni delle alte canne fumarie, emergono come guerrieri vittoriosi, conquistatori sui tetti delle case. Così la fierezza si fissa sulla carta. In un'altra immagine uno schermitore, dalle dita lunghe e dallo sguardo complice e tenero, si trasforma in una belva di cui non si riesce a cogliere il movimento brusco, sfocato: un calabrone colto al volo. In queste fotografie, con i loro potenti contrasti di luce e di movimento, sfila una galleria di ritratti in cui ritroviamo fantini, cacciatori, agricoltori, pianisti, taglialegna, pescatori o vignaioli, tutti appartenenti a uno stesso angolo della terra. Sono tutti accomunati da una nobiltà magistrale, senza dubbio dovuta al rispetto che nutrono per la loro arte, per la loro attività, per il oro lavoro, per la loro vita. Qui tutto si confonde: l'essere, cia che l'essere fa e la grandezza che ne scaturisce. L'occhio preciso di Giorgia Fiorio, talvolta caustico, sempre reverente, ha gia saputo presentarci visioni di marinai, di toreri, di pugili e di minatori la cui magnificenza non era mai stata raggiunta da nessun fotografo. In questa mostra l'artista ravviva le patenti di nobiltà dell'uomo operoso, nell'esercizio della fatica o dello svago: l'essere che si consuma, si spende, vive, cresce.
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Piemonte. Una definizione fotografica - Andare

Gian Luca Favetto


Andare a trovare Calvino, questo il primo passo, l'inizio del viaggio. Non Italo, Ilvo. Su dalle parti di Biella, oltre Biella, a Pratrivero. Tutto è cominciato con un nome, anzi un cognome a fare da esca, da motore. Si accende il motore e l'automobile parte. E, insieme, parte la fantasia, l'immaginazione.

Stiamo andando a incontrare Calvino - a vedere Calvino, come si dice dalle nostre parti, vado a vedere uno, si dice - sebbene sia Ilvo e non Italo, e faccia il tintore e non lo scrittore, riempia di colore le stoffe e non di parole le pagine, ma forse è un po' lo stesso.

Stiamo andando a ripescare la nostra immaginazione e a metterla alla prova. Non andiamo a conoscere Ilvo Calvino, artigiano tintore, classe 1942: andiamo a ri-conoscerlo fra mille, così vuole Giorgia.

Siamo in quattro in macchina: Giorgia, Guia, Andrea e io. lo guido, Andrea aiuta, Guia fa molto, se non tutto, e Giorgia segue le sue visioni, le sue ossessioni, la sua memoria; va dietro un filo d'Arianna, dietro le briciole di Pollicino; recupera con la vista l'idea, il sentimento che ha - che ha avuto - di una faccia del Piemonte. Che poi sono centomila, sono un milione, le facce del Piemonte. Sono tante quante le facce delle persone che lo abitano. Facce che arrivano dalla storia, dal rempo, anche da altre terre, e hanno storie e tempi e altre terre da proporre, da far rivivere a coloro che le guardano. Giorgia le incontra, le studia, le prende. Le afferra con e per gli occhi, le afferra con e per le budella e le mette in fotografia. Ne fa ritratti. E in questo modo le racconta. Dai lineamenti tira fuori storie, seguendo le sue escogitazioni. E noi, dietro.

Quattro viaggi che ne fanno uno. In giro per il Piemonte. Una settimana a febbraio, una a maggio, una a luglio, una a cavallo fra settembre e ottobre. Quattro stagioni, un unico tempo, indipendentemente da quello atmosferico: il tempo dello sguardo che si sovrappone a quello del ricordo e viene filtrato da quello dell'immaginazione.

Quasi sempre lo sguardo del fotografo è lo sguardo di colui che, nel soggetto, mette il proprio modo di guardare e ascoltare, mette la propria memoria, il proprio passato, esattamente nell'attimo in cui sceglie di fermarlo. Inquadra, scatta e vede già quello che la fotografia racconterà nel futuro a chi le passerà davanti, sa già la storia che gli altri vedranno, mesi o anni dopo, in un libro o in una mostra. Pre-vede.

Un viaggio per le terre, le valli, i mestieri, le memorie, le facce, diventa una mappa.

A proposito di mappe. Un giorno ho letto che sono fatte di anni, non solo di disegni, immagini, percorsi e nomi. Ho letto che ogni singola mappa raccoglie tutto ciò che altri in secoli passati hanno visto, scoperto o inventato; e in ogni mappa le conoscenze dei suoi autori sono accatastate una sull'altra in una sorta di discontinuo, intermittenre mormorio: godersi la più semplice delle carte significa ripercorrere la storia umana, la storia della cultura.

Se alla parola mappa sostituisci la parola fotografia, non c'è nient'altro da cambiare e il discorso vale lo stesso. Fotografie come mappe, sono quelle di Giorgia. I clic sono i luoghi attraverso cui passare. E non è detto che alla fine tutti rimangano in vista. Ilvo Calvino, infatti, in mostra non c'era. E nemmeno qui. Però Ilvo è stato l'inizio, e non si parte se non dall'inizio.

Siamo partiti da lui, con lui, con i suoi silenzi, la sua severa docilità, con la sua bella faccia da attore, e lui nella mostra era un'assenza. Era la radice rimasta sotto terra a nutrire gli altri. Le radici sono cose che se ne stanno a parte, nascoste, solitarie.

Noi ci siamo arrivati in macchina da Torino. Torino-Pratrivero, un lunedì 18 di febbraio. Silenzio e risate, in viaggio. Andare a scovare facce che sono il prodotto dell'immaginario, che sono archivi della memoria: questa la missione. Con Giorgia si tratta sempre di missioni.

C'era molto freddo. Si potesse fotografare il freddo, con lo sviluppo vedresti saltar fuori direttamente cubetti di ghiaccio. Respiravamo cubetti di ghiaccio.

Pratrivero è un campanile, un arrocco di case in discesa che si stende come un panno e una strada a curve che ci sale in mezzo, un bar tutto di legno con tendine di pizzo ai vetri e una vecchia tintoria. Il lavoro di tintore consiste nel lavare, asciugare e colorare. Ilvo Calvino è rimasto solo in 1.200 metri quadrati - vent'anni fa erano in quindici. Lava, asciuga e colora con l'aiuto di poche macchine. Una macchina sembra una locomotiva con una cabina verde scuro e un motore fatto di manopole, rulli, stanghe, sbarre, ruote, cilindri, manovelle. Un'altra sembra un bidone aspira-tutto. Poi ci sono vasche, matasse colorate, singoli fili di lana aggrovigliati, calcinacci, mattoni e terra. E un cartello che ammonisce: "È assolutamente proibito avvicinare le forbici alle matasse, tagliarle o rovinarle. È indispensabile trattarle benissimo. An racumand. Grazie". Quell'an racumand, prima, e poi quel grazie dicono più di tutto il resto.

Voltando pagina, voltando paese, con qualche altro chilometro addosso, dicono più di tutto il resto anche le facce dei fratelli Castaldi, Bruno e Marisa, nel loro avamposto di Vigliano Biellese, nella vecchia filanda fondata da Livio, il capostipite. Filano lana o acrilico. Filature pettinate. Lavoro artigianale. Trent'anni or sono c'era bisogno di venticinque, trenta persone, le macchine giravano giorno e notte; adesso sono in quattro in mezzo al frastuono. Rumore, solo rumore. È lo stesso rumore di un traghetto che ha acceso i motori, ma non è ancora partito. Il mare, in questo caso, è sopra invece che sotto: un mare di lana, con fili come correnti. Ci sono ciuffi di lana sparsi per terra, spole, bobine. Marisa e Wanda, la cognata, passano veloci con le mani sulle rocche; sembrano immagini accelerate di vecchi film muti. Parla il rumore.

Hanno facce larghe, piatte, timide, pelle bianca, occhiali spessi, Bruno e Marisa. Lui usa solo il dialetto. Lei ha una voce sottile da bambina, ha cominciato come rammendatrice e da cinquantadue anni lavora venti ore al giorno. Si porta dietro un odore incorruttibile di borotalco, che sembra preservarla dal passare del tempo. Chiusa in un'infanzia antica, come se venti ore di lavoro al giorno l'avessero preservata dalla vita. E tuttavia la sua figura, tutta la sua persona, ha il segno della fine addosso. Insieme al fratello, danno la sensazione di essere gli ultimi, e di averne coscienza: professioni imparate nel corso di molti anni e in pochi altri anni perdute. La loro casa ha una sirena al posto del campanello.

Una sirena fuori dall' uscio di casa, fra la casa e lo stanzino buio che gli fa da laboratorio, conserva anche Vincenzo Noris, classe 1920, che è nato a Bergamo, aveva la malattia del mare ed è finito a Postua, 560 abitanti, in provincia di Vercelli, a fare il boscaiolo prima e a costruire gerle poi. Un uomo con la faccia gentile intagliata nel legno. Una faccia da seduttore, rughe leggere, voce che sembra uscire da un altro corpo, sguardo orgoglioso e ridente. È arrivato nel 1936. Poi è partito per la guerra. Dal 1941, sul fronte greco-albanese. Allo sbaraglio. Il fratello è morto a Cefalonia, lui è finito in campo di concentramento, poi in un campo di lavoro, poi in un cantiere navale in Olanda. Alla fine, invece di prendere la via del mare, ha preso il sentiero dei boschi ed è tornato in valle a coltivare salici, a piegare strisce di vimini per gerle, scatole, cestini, e a raccontare storie. Storie di partenze e ritorni, di avventurieri inglesi, di viaggiatori americani, di modenesi e bergamaschi, di ballerine di varietà uccise in Africa.

Giorgia ascolta e agisce. Davanti a lui, come davanti a Bruno e Marisa, come davanti a Ilvo, non smette di chiedere storie alle loro facce: i lineamenti, gli occhi, i gesti sono sia parole, sia punteggiatura, spazi bianchi e linee di inchiostro. Lei trova il modo di far coincidere le loro storie con la propria immaginazione, con le visioni che risalgono dal suo personale immaginario.

L'immaginario è il binario della fantasia che si ciba di memorie. L'immaginazione è il magazzino delle azioni dimenticate, l'invenzione di una nuova azione.

Curioso come l'immaginazione possa fare a meno delle immagini, tranne che della prima. Un'immagine la mette in moto - stavo per scrivere la mette in foto, e non sarebbe suonato sbagliato. E lei decolla. Non ha bisogno di altro. Va avanti, ha bisogno soltanto di oltre.

Immaginare è andare oltre rispetto a un punto dato, a un confine; al confine del sapere, per esempio, del già visto, protendersi dal conosciuto, sbilanciarsi, pencolare nel vuoto, sfruttare questa sensazione del vuoto e guardare. Questo è immaginare: immagini dare, immacolato mangime dare, fornire cibo al cervello, al cuore, allo stomaco, oltre i margini andare, sempre immacolato, cioè con un atteggiamento che sta fra l'ingenuo e l'ingegnoso, il candido e il determinato. Immaginare è trovare nuove prospettive, è un ardire, talvolta un predire.

Nel suo andare oltre, l'immaginazione - oltre il conosciuto, oltre il tangibile e il visibile - va incontro alla memoria. Non solo mette le toppe alla realtà, non solo riempie buchi, ma cerca punti anomali della realtà, storture. Non per raddrizzarle, non per spiegarle - l'immaginazione è arte, racconta, non spiega-, ma per cavalcarle, per sfruttarle, per produrre altre immagini, altre idee. Puoi pensare che l'immaginazione stia al reale, al mondo che appare, così come i buchi neri stanno all'universo: è qualcosa di assorbente, di vorace, di spiazzante.

Assorbenti, voraci, spiazzanti sono le foto di Giorgia. Vederla al lavoro, mentre s'arrampica su scale e tetti, insegue, si contorce, s'infanga - non è Giorgia armata di macchina, è la macchina armata di Giorgia - capisci che da una pane c'è lei e dall'altra ci sono le sue foto. E in mezzo, l'attimo che le ha unite. Quel tempo lì, quell'istante in quel luogo lì. Quella presenza che è passata, insieme, nel soggetto e nell'oggetto, nell'occhio e nella faccia, nello sguardo e nel gesto di chi sta dietro e di chi sta davanti alla macchina fotografica.

Le sue foto corrispondono esattamente a quello che lei è. Le sue foro hanno quello che lei è. Lei ha la carnagione scura. E le sue foto hanno la sua carnagione. Le sue foto hanno il suo sguardo. I suoi occhi.

Il suo sguardo, i suoi occhi li ritrovi incollati, incrociati, incrostati con quelli della famiglia Paschini, meravigliosi saltimbanchi installati nell'astigiano; e con i fratelli Bellofatto, gommisti in Venaria, che non sfigurerebbero a Hollywood; con Bruno Milani, il fratello Livio, il padre Franco, su per i tetti a pulire camini in Val Vigezzo; e Celesti no, Roberto e Silvana Peirache, pastori; con Franco Banche Colin, Giacomino Ubaudi, Carlo Griglione e il vecchio Nicolao detto Bordò, boscaioli per destino e passione; con quei titani ammaccati che sono i rugbisti nel fango di Alessandria; con i canotti eri e gli schermi tori, che sembrano d'altri tempi, come da altri tempi sgusciano i giocatori di pallone elastico e di bocce; e ancora, mondine e salesiani, allievi e professori del Conservatorio, attori, pescatori e cacciatori, vignaioli e tartufari: messi in fila, riuniti in posa in quella terra di nessuno che si trova fra l'oblio e la memoria. Terra di nessuno, dunque terra di tutti. Che tutti possono attraversare, portandosi via un pezzo.

Ogni immagine creata da Giorgia è uno stop di emozioni: rapprende il tempo - lo prende a ritmo di rap, un rap del presente. Le facce ritrovate fra Monferrato e Val Varaita, Asti e Alba, Torino e Alessandria, Viù e Coassolo, il biellese, il vercellese, la Val Vigezzo sono i versi di questo rap. Una dietro l'altra fanno una canzone. Le note, ora, mettetele voi, con i vostri occhi.
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Piemonte. Una definizione fotografica. "Altrove da oggi"

Giorgia Fiorio


Immediatamente affiora in immagini una folla di ricordi: immagini di persone. Un gran numero, mai incontrate. Gente di cui s’era raccontato, gente di cui si parlava ma su cui non mi ero mai soffermata, non avendo come già dissi, mai visto né conosciuto quasi nessuna di queste persone, tuttavia l’idea, o meglio la memoria immaginaria di costoro, mi appariva a un tratto dovesse essere proprio quel Piemonte che avrei voluto cercare. Si trattava di scoprire, queste persone, vederle per davvero e provare a dar loro una “forma”, fermarle attraverso la fotografia. L’intangibilità del ricordo esigeva ora un’identità figurata, reale e condivisibile. La gente che io avevo in mente, lì per lì non aveva molto in comune; mi verrebbe da dire il suolo, ma data l’immensa varietà morfologica del territorio nella regione in questione… Mi risolsi a buttar giù un elenco, tralasciando i ragionamenti e le implicazioni storico – sociali, che le selezioni con intento di schedario inevitabilmente si portano appresso: riandando contromano dietro a un filo immaginario, così di seguito scrissi: Mondine, Canottieri, Boscaioli, Salesiani, Cacciatori, Giocatori di Pallone Elastico, Filande, Cercatori di Tartufi, Attori di Teatro, Giocatori di Bocce, Fabbricanti di Gerle, Rugbisti, Musici Virtuosi, Fantini, Vignaioli, Gommisti, Immigrati, Pescatori di Fiume, Pastori d’Alpeggi… Senz’altro ce n’erano altri in grande numero, ma il mio non voleva essere un inventario esaustivo, né una nomenclatura, semmai un percorso libero attraverso appunto quella memoria delle figure che abitano i luoghi che ognuno di noi possiede in un certo suo personalissimo passato. Si svolse infine questo insolito viaggio: in realtà quattro viaggi, uno per stagione. In ordine sparso: dalla Val Germanasca alla Val Vigezzo, alla Val Varaita; dal Fiume Po al Fiume Sessera e ancora: Postua, Viarigi, Alessandria, Gassino, Neive, Pratrivero, Santa Maria Maggiore, Torino, Alba, Venaria, Ponte Stura Monferrato, Castagnole d’Asti, Asti, Bellino, Pray, Coassolo, Vrù. Figure, uno per uno, i componenti di questa misteriosa famiglia apparvero infine dinanzi ai miei occhi, da un tempo altrove da oggi.
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